Alice senza niente. Un (vero) romanzo di una generazione dimenticata

Canterò l’inutilità della vittoria e l’apoteosi delle medaglie di legno. Canterò la vanità di una carriera folgorante e dei sacrifici necessari per raggiungerla. Canterò la mia nuova convinzione: ciò che importa è il denaro, non il lavoro. Avete applaudito la flessibilità, televisivi e contenti avete detto sì ai contratti precari per i vostri figli – attenzione: non per voi, per i figli – , vi siete difesi dalla crisi radicandovi alle vostre postazioni. Bravi: adesso aspettatevi un futuro in cui nessuno di noi farà nulla per nulla. Solo soldi vogliamo: restate tranquilli nei vostri uffici, seduti comodi sulle vostre sedie rotanti, tenetevi pure i vostri contratti. Noi vogliamo soldi, nient’altro.”

Alice senza niente è il romanzo di Pietro De Viola, pubblicato come e-book gratuito nel 2010 viene stampato nel 2011 e venduto da Terre di Mezzo editore.

Il romanzo percorre un momento ben preciso della vita di Alice, protagonista trentenne, laureata e alla costante ricerca di un lavoro che le garantisca non soltanto di arrivare a fine mese con la pancia piena e le bollette pagate, ma soprattutto di vedersi riconosciuta e restituita una dignità che ormai da tanto (troppo) tempo insegue.

E’ un racconto toccante, poco ironico in verità e che dipinge le cose in maniera nuda e cruda, senza troppi orpelli o esagerazioni di sorta. E’ la storia di un’intera generazione cresciuta in una pericolosa illusione di un futuro irreale, quello del posto fisso, della laurea che apre le porte con facilità, di una nuova facilità di una comunicazione e di relazioni umane che dall’analogico stanno passando al digitale, della sconfitta di una solitudine esistenziale e di un’indipendenza economica ed emotiva del singolo.

E’ la generazione dei “trentenni bamboccioni”, quelli che “preferiscono” restare a casa coi genitori, gli eterni Peter Pan che non si decidono mai a crescere. Che poi, nella mia vita da trentenne ne avrò conosciuti si e no due o tre di veri “bamboccioni”. E’ questa asettica e semplicistica percezione del mondo esterno che mi ha spaventata, nessuno parla dei datori di lavoro che ti offrono uno stage non retribuito perché “… è la politica aziendale tanto tu abiti con i tuoi che ti campano giusto?”

Questo libro fa emergere una piaga generazionale di non poco conto, una piaga che non è solo quella della mancanza di lavoro o del precariato dei contratti rinnovati di tre mesi in tre mesi, è la piaga di una generazione che si sente derubata di un futuro promesso e che non ha avuto il coraggio, la lucidità, i mezzi (?!) per reagire.

Laureati, altamente specializzati, troppo qualificati, senza abbastanza esperienza, troppo vecchi, troppo sicuri o troppo insicuri. La mia generazione è un disastro. Lo affermo osservando la generazione seguente che sta andando alla ribalta, capace, sicura di sé e di quello che vuole essere, cresciuta senza il rimbambimento del posto fisso in Italia e con lo sguardo sull’esperienza all’estero che diventa una prassi e non un privilegio (anzi se le esperienze sono più di una e in nazioni diverse tanto meglio), una generazione poliglotta, senza paura e senza confini (fisici e non).

Li invidio.

I miei coetanei si dividono in due blocchi distinti, suddivisione che Pietro De Viola coglie drammaticamente bene.

Ci sono i trentenni che ce l’hanno fatta e che sono riusciti per merito, o perché “generosamente spinti”, oppure per smisurata fortuna (di trovarsi nel posto giusto al momento giusto) ad avere un’occasione; l’occasione di dimostrare o meno quello che valgono e di raccoglierne i più o meno meritati frutti. Come si evince dal romanzo questa categorie è riconoscibile nel totale distacco dalla realtà delle cose e da quello che succede (lavorativamente ed emotivamente) ai loro coetanei non altrettanto fortunati. Nel romanzo questa branca di trentenni è rappresentata da Silvia, l’amica “perduta” (o sperduta) che non riesce a vedere più in là del suo naso e che mette in atto un  leitmotiv lamentoso con chiunque le capiti a tiro dettato da una frustrazione apparentemente lavorativa (il lavoro è troppo stressante, la vita è una merda, non so cosa voglio ecc. ecc.) ma che in realtà cela un profondo vuoto interiore e un’incapacità di empatia programmata. Sono quelli che, una volta firmato un contratto, hanno dimenticato  il loro periodo più o meno lungo di precariato ma soprattutto gli amici con cui hanno condiviso sventure e frustrazioni. Sono quelli che ce l’hanno fatta, sono quelli “arrivati” eppure inesorabilmente infelici.

Il secondo blocco è quello dei trentenni rancorosi, arrabbiati, frustrati dalla vita e dalla mancanza di fortuna, occasioni, successo. Sono quelli che affrontano ogni giorno con sempre maggiore acredine, nascondendosi dietro sorrisi inutilmente falsi durante i colloqui di lavoro, mentre rispondono alle solite, scontate, infruttuose domande, sono quelli con la paura di perdere quel poco che sono riusciti a guadagnare con tanta fatica e che non perdono mai il contatto con la realtà volubile delle cose. Sono i trentenni come Alice, probabilmente validi, profondamente vinti dalle circostanze, pronti ad accettare posizioni anche di molto inferiori alle loro capacità e ambizioni, stanchi e vecchi dentro rispetto alle nuove leve fresche di università e più agguerrite che mai, alla costante ricerca di perfezionamento e impegnati a colmare lacune su lacune perché non si sentono mai “abbastanza”. Sono quelli che cercano disperatamente una collocazione nel mondo che li circonda che possa concedere loro almeno un barlume di serenità.

Il quadro di Pietro De Viola è terribilmente attuale e non lascia scorgere alcuna possibilità di cambiamento. Il mondo continuerà ad avere persone come Silvia e come Alice. Nessun intervento di un Deus ex machina a pareggiare i conti della fortuna. Questo mi fa riflettere sul fatto che forse siamo una generazione ormai perduta, condannata da mano altrui all’invisibilità e che si sta pian piano autocannibalizzando e condannando a una solitudine e incomunicabilità intergenerazionale irreversibile.

Ed ecco che le uniche via di fuga che scorgo si fanno anch’esse dicotomiche: illusione effimera o disillusione patologica?

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